Avvocato e Investigatore sotto un’unica toga

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Marco Tullio Cicerone

Marco Tullio Cicerone nell’80 a.C. fu nominato difensore di Sesto Roscio Amerino accusato di parricidio. La nomina comportava innumerevoli rischi per un giovane avvocato alle prime armi come lui. L’incarico venne affidato proprio ad un giovane avvocato come Marco Tullio Cicerone perché tutti gli altri avevano declinato l’invito sapendo che quel processo era in realtà perso già in partenza. A sponsorizzare la difesa, con propri denari, era stata la nobildonna Cecilia Metella, amica fidata della persona uccisa. L’accusatore di Sesto Roscio era il potentissimo Lucio Cornelio Crisogono, liberto di Lucio Cornelio Silla, uno dei suoi più stretti collaboratori. Egli fece inserire nelle liste di proscrizione il padre di Sesto Roscio, ricchissimo nobile romano con grandi proprietà terriere, per carpirne il patrimonio e per comprarlo poi all’asta per pochi sesterzi; dopo la sua morte e per togliere di mezzo ogni prova contro di lui, tentò di fare uccidere anche il figlio, Sesto Roscio Amerino.
Astutamente, dopo il primo insuccesso, pensò che la cosa migliore sarebbe stata quella di fare condannare il giovane di parricidio e mettere a tacere eventuali sospetti che potevano sorgere contro di lui.

La pena per il reato

Nel I° secolo a.C. Roma non perdonava il reato di parricidio. La pena per i colpevoli di un crimine così infamante era quella della condanna a morte per “ Poena cullei”. Dopo la condanna, il reo veniva tradotto in carcere con soleae ligneae (zoccoli di legno) ai piedi e un cappuccio di pelle di lupo in testa; il parricida veniva poi frustato con virgae sanguineae (verghe colore del sangue) e quindi cucito in un culleus (sacco) di cuoio insieme ad un cane, un gallo, una vipera e una scimmia. Dopo essere stato trasportato attraverso la città su di un carro trainato da un bue nero, veniva infine gettato nel Tevere. Una morte atroce dalle sofferenze terribili.

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La condanna certa

L’accusa costruita ad arte da Crisogono, con testimoni falsi e false ricostruzioni, avrebbero portato il povero Sesto Roscio a condanna certa. Nessuno si sarebbe messo contro il liberto e braccio destro del potente Lucio Cornelio Silla.
Marco Tullio Cicerone, nonostante fosse stato informato da i suoi amici e colleghi dei pericoli ai quali sarebbe andato incontro, assunse lo stesso la difesa di Roscio. Aprì la sua difesa dicendo ai giudici e al popolo romano, accorso numeroso alla prima udienza, con la seguente prolusione:

«Ecco i motivi per i quali ho assunto in questa causa l’ufficio di avvocato difensore io che non sono stato scelto tra tutti per il fatto d’avere l’ingegno più brillante, ma perché ero l’unico rimasto, dopo il ritiro degli altri, che avessi la possibilità di pronunciare l’arringa con il minor pericolo: con lo scopo, s’intende, non già di offrire a S. Roscio un patrocinio validissimo, ma almeno di non lasciarlo totalmente abbandonato.»

(Marco Tullio Cicerone durante “Oratio pro Sexto Roscio Amerino”)

Dunque, alla giovane età di venticinque anni, Cicerone assunse la difesa di Roscio pur sapendo a quali rischi sarebbe andato incontro e quali possibili ritorsioni avrebbe potuto ricevere da Crisogono.
Roma era da poco uscita da una terribile guerra civile. Il vincitore Silla e il suo braccio destro Crisogono avevano ucciso migliaia di persone senza troppi complimenti. Chiunque si fosse messo di traverso, sarebbe stato spazzato via in un attimo.

Per comprendere l’accusa e per capirne il macchinoso intrigo, siamo costretti a tornare indietro di qualche mese precedente al processo. Sesto Roscio padre (omonimo del l’imputato), mentre rincasava da un banchetto, durante una notte di settembre dell’81 a.C., venne ucciso da alcuni sicari nei pressi delle Terme Pallacine. Subito dopo l’omicidio, i mandanti, T. Roscio Magno e T. Roscio Capitone, chiesero l’aiuto del potente liberto di Silla, Lucio Cornelio Crisogono, per dividersi l’ingente patrimonio immobiliare della vittima. Affinché questa spartizione risultasse legale, era necessario che il nome di Sesto Roscio comparisse tra i nomi dei proscritti. I suoi beni, che constavano in tredici fattorie dal valore di sei milioni di sesterzi, furono svenduti per soli duemila sesterzi a Crisogono, il quale concesse a sua volta a uno dei suoi complici, Capitone, tre di quei poderi, e all’altro a Magno.

Il legittimo erede di quei beni, in realtà, era il figlio della vittima, il quale grazie al sostegno dei potenti esponenti dell’aristocrazia romana, con cui il padre aveva stretto forti legami, poteva opporsi a quel sopruso e rendere la vendita nulla. Pertanto Magno, Capitone e Crisogono, per scongiurare questa eventualità, decisero di ingaggiare un sicario e falsi testimoni per accusare Sesto Roscio di parricidio.

Il Processo

Il Processo ebbe inizio con la partecipazioni di centinaia di sfaccendati e spettatori di ogni tipo. I processi all’epoca erano di forte richiamo ed erano l’intrattenimento per eccellenza. Questo di Roscio aveva fatto molto rumore a Roma e il pubblico aveva partecipato entusiasta.
Naturalmente, anche all’epoca c’era chi si schierava tra colpevolisti e innocentisti. Le basiliche brulicavano di ogni sorta di personaggi e di testimoni falsi. Gli avvocati più furbi si portavano a seguito i laudiceni, una claque pronta ad applaudire ogni parola detta da chi li pagava per influenzare favorevolmente i giudici. Non mancavano inoltre, orde di sedicenti esperti come quelli che oggi, ahimè, vediamo sempre più insistentemente nei nostri salotti televisivi.

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L’arringa di Cicerone

Torniamo al processo in questione. L’accusa era stata affidata a Erucio, il quale ostentava una sicurezza oltre ogne limite di riuscire a fare condannare l’imputato. Dopo la sua arringa e stante alla rumorosissima reazione del pubblico sembrava non vi fossero più dubbi ed alcun scampo per il povero Sesto Roscio.
Dopo le parole dell’accusa, era venuto il turno della difesa:
A Marco Tullio Cicerone, gli si presentava davanti una strada tutta in salita e, contrariamente a comegli era stato comandato da Cecilia Metella, fa improvvidamente il nome di Crisogono, anzi lo accusa apertamente del furto delle fattorie dell’imputato. La reazione non si fece attendere. L’aula venne pervasa da rumorosissimi schiamazzi e mugugni di ogni tipo. Crisogono non doveva neppure essere nominato in un aula di giustizia. Averlo fatto metteva in serio pericolo la vita di Cicerone.
Il Processo si aprì nel peggiore dei modi. Erucio intanto assaporava la vittoria e affilava le sue armi introducendo i suoi primi testimoni, Capitone e Magno. La situazione per Sesto Roscio dopo la loro deposizione si era fatta ancora più grave. Accusavano Sesto di essere in completo disaccordo con il padre anzi di nutrire per lui una sorta di odio sordo. Il padre a sua volta volta lo avrebbe minacciato pesantemente di diseredarlo. Era dunque questo il motivo che avrebbe armato la mano di Roscio contro il padre?

La testimonianza di Magno Tito Roscio

La cosa più sorprendente fu la testimonianza di Magno. Magno Tito Roscio, cugino dell’imputato, rincarò la dose dicendo che Sesto era pazzo e che sapeva che tra zio e cugino non scorreva buon sangue e che presto Sesto sarebbe stato diseredato.
Quando finalmente toccò a Cicerone il contro interrogatorio di Magno le cose presero un’altra piega. Magno messo alle strette ammise di occuparsi lui stesso delle ricche tenute di suo zio, e che queste che erano diventate improvvisamente proprietà di Lucio Cornelio Crisogono. Crisogono unico partecipante all’incanto, dove i beni erano finiti a seguito di una “curiosa” lista di proscrizione nella quale compariva, come traditore della patria, il vecchio Roscio.
Le liste di proscrizione erano state compilate qualche anno prima, subito dopo le guerre intestine tra romani. Queste liste contenevano i nomi dei nemici soccombenti che potevano essere uccisi da chiunque e ovunque essi si trovassero. I loro beni poi sarebbero stati confiscati e venduti all’asta al miglior offerente.

L’avvocato investigatore

Come poteva un uomo molto in vista come il vecchio Roscio essere finito in quella lista? Chi ce lo aveva messo e soprattutto perché?
La cosa necessitava un indagine approfondita da parte del grande Marco Tullio Cicerone che, dismessi i panni d’avvocato per indossare quelli dell’investigatore privato si mise a caccia di quella lista. Dimostrarne la falsità avrebbe provato che dietro al delitto di Roscio non vi era un odio tra padre e figlio, ma una vera e propria macchinazione ordita da Crisogono per impossessarsi dei beni della ricca famiglia Roscio.
Cicerone, con una mossa azzardata e non priva di enormi pericoli, sfruttando i favori della notte, si introdusse all’interno degli uffici del registro per rovistare tra le carte e cercare la copia originale delle liste di proscrizione. Dopo averla trovata, la mise rapidamente a confronto con quella esposta nella basilica di Amelia, luogo dove Crisogono accampava le pretese della famiglia Roscio: ecco trovato l’inganno. “Cui bono?” A vantaggio di chi ?
Non vi erano più dubbi, Il beneficiario era proprio lui. Crisogono, con la complicità di Capitone e Magno, si era affrettato ad aggiungere il nome del vecchio Roscio nella lista di proscrizione di Amelia.
Fu un colpo da maestro per il giovane Cicerone quando il giorno dell’udienza espose la vera lista, quella depositata in originale negli uffici del registro rocambolescamente prelevata di notte dall’investigatore e Avvocato Cicerone . Dopo averla mostrata ai giudici, la mise a confronto con quella esposta ad Amelia e tuonò con voce ferma: “Cui bono?! Cui bono?!”.

L’assoluzione

Per i giudici non vi era più alcun dubbio. Assolsero il povero Sesto Roscio Amerino e ad Erucio, l’accusatore al soldo di Crisogono gli venne marchiata a fuoco sulla fronte la lettera “K”, lettera infamante che stava a significare “Calumniatores”.
Cicerone invece divenne l’avvocato più famoso di tutta Roma e naturalmente, divenne anche il mio più illustre collega.

I.P. Davide Cannella

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