25 anni fa: L’omicidio di Marta Russo alla Sapienza di Roma

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Di Daniele Vanni

La studentessa fu colpita da un proiettile, apparentemente senza motivo: una storia ancora piena di dubbi irrisolti

Nelle nostre università abbiamo visto di tutto! Noi che da giovanissimi abbiamo vissuto il tragico ed immaginifico ’68 e che qualche laurea l’abbiamo presa e collezionata qua e là tra Toscana (Pisa, Firenze) e Roma, con molte sofferenze e mal di pancia, non solo per lo studio, ma soprattutto per vedere come sono ridotti (e non mi riferisco solo alle mura!) i nostri Atenei, anche quelli della Capitale, dove là di lauree ne abbiamo collezionate due, vedendo la differenza in ordine, pulizia, disciplina, circolazione o meno di droga, assenza o meno di professori, testi che si possono acquistare direttamente in classe il primo giorno di “scuola” o corse affannose nelle librerie cittadine, con manuali che magari arrivano con mesi di ritardo, piani di studio presenti il primo giorno di lezione o dopo mesi o mai, con professori scrupolosi o bidelli che per una stecca di sigarette ti dicono di studiare da pagina a pagina che tanto interrogano solo lì!…tra università statale e pubbliche, diciamo: Sapienza , e private, o meglio: non statale, diciamo, sempre per esperienza, LUMSA, il più antico ateneo romano dopo la Sapienza appunto, bè qualche esperienza ce la siamo fatta. E non vogliamo esprimere giudizi, perché quando l’università era classista, c’erano le idee dominanti e la contestazione dal basso. Con tante idee anche aberranti. A destra, come a sinistra. E a volte, aberranti, ma con moderazione, anche al centro. Oggi, che l’università è di massa e tutti vi possono accedere, non solo per prendere un “titolo” che non garantisce proprio niente, nenache la cultura specifica del settore o campo, ma neppure il saper scrivere in Italiano, mi pare, ma mi posso sbagliare e sarei contentissimo di sbagliarmi, che ci sia un solo pensiero dominante. Anzi: imperante. E guai a chi sgarra o va fuori dal solco tracciata dall’aratro condotto non si sa bene da chi!
In questa università, ma in particolare la “Sapienza” (che ha un nome impegnativo! Ma assomiglia più ai prodotti dei palazzinari romani che non ai college inglesi) alle 11.42 di Venerdì 9 maggio 1997, venticinque anni fa, appunto, la studentessa di Giurisprudenza dell’Università La Sapienza di Roma Marta Russo fu colpita alla testa da un proiettile, mentre camminava lungo un vialetto della città universitaria, tra le facoltà di Giurisprudenza, Scienze Politiche e Scienze Statistiche. Il proiettile penetrò nell’osso temporale, al di sotto dell’orecchio sinistro della ragazza perforando l’encefalo. Chi era nelle vicinanze sentì un colpo attutito. Marta Russo venne trasportata al vicino Policlinico Umberto I, dove morì dopo cinque giorni di coma, a 22 anni.
Il delitto apparve subito senza un movente, senza una spiegazione “logica”, insensato come fosse frutto di un gioco di persone appunto senza senno. Non si poteva pensare né ad una vendetta personale, né collegarla a qualcosa di politico o terroristico.
Le indagini furono complesse, la vicenda giudiziaria lunghissima come al solito, dibattuta e attraversata da polemiche.
Ma ancora oggi quello che viene ricordato come “il delitto della Sapienza” presenta numerosi punti mai chiariti e dubbi non risolti.
Inizialmente venne presa in considerazione la pista del terrorismo, visto che il 9 maggio era l’anniversario dell’omicidio di Aldo Moro. Ma non c’era nessun collegamento con Marta Russo, nessuna ragione per cui la ragazza potesse essere considerata un obiettivo. Si parlò di uno scambio di persona. Si ipotizzò anche che il bersaglio fossero alcuni studenti iraniani presenti poco lontano, sullo stesso vialetto. Vennero interrogati amici ed ex fidanzati.
Le indagini stabilirono, come è stato poi scritto in un’ultima sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, che il proiettile era arrivato «da sinistra dall’alto, leggermente da dietro».

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Dodici giorni dopo il delitto i tecnici della polizia scientifica concentrarono l’attenzione sull’aula numero 6 della sala assistenti dell’Istituto di Filosofia del Diritto. Questo «in seguito», come venne scritto anni dopo dai giudici della Corte di Cassazione, «al rinvenimento sulla finestra destra n.4 di quell’aula di una particella composta da bario e antimonio, indicativa dello sparo». Il proiettile, secondo la perizia, era stato sparato da quella finestra. Un’altra perizia, due anni più tardi, smentì quel primo esame, ma intanto le indagini si erano concentrate su quella pista. La pistola non venne mai ritrovata.
Vennero indagate molte persone. All’inizio i sospetti caddero su un bibliotecario di Lettere, che venne poi scagionato. Fu sentita come testimone la dottoranda Maria Cristina Lipari. Quest’ultima cambiò varie versioni, definì i suoi ricordi «subliminali», ma disse che nell’aula 6 c’era una strana atmosfera. Parlò della presenza del professore Bruno Romano, direttore dell’Istituto di Filosofia, che venne messo agli arresti domiciliari, della dipendente dell’Istituto Gabriella Alletto e dell’usciere Francesco Liparota. Alletto fece i nomi di due giovani assistenti, Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Disse di aver sentito un «tonfo» e di aver visto «un bagliore», aggiungendo: «Ho visto Scattone ritirarsi dalla finestra. Aveva qualcosa in mano che brillava (…). Ho visto qualcosa che brillava nelle mani di Scattone».
La testimonianza della donna venne però poi molto contestata: fu interrogata 13 volte in pochi giorni, e l’ultimo interrogatorio durò 12 ore.

I giornali riportarono la notizia secondo cui alcuni studenti avevano detto di aver sentito i due assistenti discutere tra loro di “delitto perfetto”. In realtà non ci fu nessun testimone che confermò la circostanza e questa tesi venne poi abbandonata durante il processo di primo grado. La tesi degli inquirenti fu che Scattone e Ferraro inscenarono per gioco un delitto senza movente e che la situazione fosse poi degenerata.
Sia Scattone sia Ferraro dissero di avere degli alibi per la mattina del 9 maggio. In realtà quegli alibi non furono pienamente confermati e mostrarono, durante il dibattimento, parecchi punti deboli. Il processo di primo grado si tenne nel 1999. L’accusa nell’arringa iniziale disse che il «movente è l’assenza di movente».
L’accusa chiese la condanna di Scattone e Ferraro a 18 anni di carcere per concorso in omicidio volontario con dolo eventuale e la concessione di attenuanti generiche e per detenzione di arma da fuoco. Il 1° giugno 1999 la giuria, condannò Scattone a sette anni di reclusione per omicidio colposo con l’aggravante della colpa cosciente e per possesso illegale di arma da fuoco, e Ferraro a quattro anni per favoreggiamento personale. Gli altri imputati, tra cui l’Alletto, furono assolti.
La Corte d’Assise d’appello nel 2001 confermò le condanne e aumentò la pena a otto anni per Scattone e a sei per Ferraro perché venne riconosciuto colpevole anche di detenzione illegale di arma da fuoco. Fu condannato anche l’usciere Liparota a quattro anni per favoreggiamento.
Intanto era nato anche un comitato per sostenere i due imputati. La Corte di Cassazione annullò le condanne, ma il nuovo processo che ne seguì emise nuovamente sentenze di condanna: sei anni per Scattone, quattro per Ferraro, due per Liparota.
Il 15 dicembre 2003 la Corte di Cassazione condannò in via definitiva Giovanni Scattone a cinque anni e quattro mesi e Salvatore Ferraro a quattro anni e due mesi. L’usciere Francesco Liparota fu definitivamente assolto.
Nel 2012 Scattone, scontata interamente la pena, ottenne una supplenza di Storia e Filosofia nel liceo scientifico Cavour di Roma, dove peraltro era stata alunna Marta Russo. Ci furono molte polemiche e proteste tra i genitori degli alunni. Scattone rinunciò poi all’incarico.

Non voglio entrare in merito. Dico solo che la vicenda di questo delitto, parlo di quella giudiziaria, aggrovigliata, inestricabile, incomprensibile, senza uno svolgimento logico e, soprattutto una verità finale e logica, assomiglia in maniera impressionante, è maledettamente, perversamente simile alla parabola delle università italiane. Quelle che ho vissuto io, naturalmente.

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