Il caso Wilma Montesi

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È l’alba. Un gruppo di persone approda su una spiaggia dopo aver trascorso una notte brava. Tra questi c’è Marcello: non uno qualsiasi. L’archetipo del bel maschio italiano, pieno di attrattività e contraddizioni. Quello sedotto e chiamato nella Fontana di Trevi:

Marcello! Come here!” da Anita Ekberg. Marcello Mastroianni, con il suo fare trasognato, come l’Italia che ha passato una guerra, pare un uomo che ormai sembra inghiottito dal vortice della perdizione e dello squallore borghese degli anni ‘60. Un paese che lui non vede, ma che sta diventando da analfabeta a potenza mondiale. Anche se per pochi attimi. Alcuni pescatori portano a riva una specie piuttosto strana di pesce che associano ad un mostro. Tra il forte vento (che sempre Fellini mette nei suoi film per renderli dei sogni) e il rumore delle onde, echeggia la voce debole e fragile di Paola, che lavora in una trattoria di mare come cameriera e che Marcello ha identificato come un angelo. Paola cerca il modo per dialogare con Marcello, ma il forte rumore del vento e delle onde sovrasta le voci dei due personaggi. Marcello, sconfitto, si arrende e se ne torna da dove è venuto, tra lo squallore vile della classe borghese.
Su questo finale de “La Dolce Vita” di Fellini, (1960, quello delle Olimpiadi) uno dei film più importanti della storia del cinema Italiano, sono state scritte numerose pagine ricche di interpretazioni di tutti i tipi. Il momento in cui Marcello e Paola provano a parlarsi, per esempio, pone l’accento sull’incomunicabilità e l’alienazione (temi molto cari ai registi di quel momento storico e agli intellettuali italiani che si rifanno un po’ tutti a Pirandello il campione siciliano che ha pescato a piene mani nella Psicoanalisi tedesca), il tutto enfatizzato dal fiume melmoso e sporco che si frappone fra i due personaggi. Paola rappresenterebbe (come il proletariato operaio del PCI?) inoltre una sorta di guida purificatrice del mondo corrotto da cui viene Marcello, una strada alternativa per sfuggire al marcio morale, che però Marcello si rifiuta di percorrere.
Secondo un’interpretazione attendibile, il film di Fellini sarebbe un viaggio nei gironi infernali della Roma degli anni ‘60. Il finale, ambientato su una spiaggia, potrebbe essere la metafora di un purgatorio dove intraprendere un processo catartico, che però non viene preso dal regista neanche in considerazione.
Interessante è però il “mostro” marino spiaggiato e recuperato da alcuni pescatori. Forse un delfino o una balenottera che Fellini avrà incrociato in una delle sue tante passeggiate sulle spiagge di Rimini, magari assieme a Zavoli o gli altri “vitelloni” che spesso ritornano con il mare Adriatico e le sue sabbiose suggestioni nei film dove Mastroianni è sempre l’alter ego, quello bellissimo ed idealizzato dal Maestro.
Affascinato anche da richiami religiosi, molto frettolosi e fugaci come i gruppi di monache o pretini che sfilano proprio sulle spiagge dei suoi film, spesso in maniera irriverente. E sarebbe facile rifugiarsi nella simbologia cristiana dal momento che pesce in greco si dice: ichtùs e com’è noto, le lettere di questa parola formerebbero un acronimo: Iesùs Christòs Theòu Uiòs Sotèr e cioè Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore. Un gioco come quello del Soter. Qui l’interpretazione troverebbe riscontro anche dalle frasi pronunciate dai pescatori che ci riportano alla mente una dimensione biblica (“è morto da tre giorni”). E ancora la frase pronunciata da Marcello, che, fissando l’occhio spalancato del “mostro” dice “questo insiste a guardare”, sembra alludere a un occhio inquisitorio e giudicante che osserva tutto (appunto un occhio divino). Cos’è quel pesce? Roma, con la sua Chiesa cattolica, ma l’Italia intera che sta per perdere la sua verginità quella tanto adorata da Pasolini, sull’altare di una crescita economica che la cementificherà e distruggerà per sempre quello che si continuerà a chiamare il Bel Paese. Ma nei Caroselli il detto si è già trasformato in una dei marchi più venduti.
E quindi convince molto di più che le suggestioni felliniane siano verso quel mostro spiaggiato più d’una, ma che tutte le raccolga una visione “pietosa” verso un Paese perso nella sua folle corsa all’industrializzazione.
Il che richiama un fatto di cronaca nera, ma che è diventato un fatto politico centrale nella storia italiana: il delitto Montesi.
Infatti, secondo lo studioso Steven Gandol, il cadavere del mostro altro non sarebbe che l’allegoria di questo delitto, tra i più celebri e discussi dell’Italia del Dopoguerra quella del Boom economico che trova medesima analoga identificazione tragica nella scena finale de “Il sorpasso” con Gassmann e regia di Dino Risi. Girato appena due anni dopo, nel 1962. E tutti e due gli episodi sono sul Tirreno: il primo a Capocotta, zona di litorale romano verso Torvaianica, che divenne proprietà privata della Casa reale, che intendeva così ingrandire l’adiacente Tenuta di Castelporziano, in uso alla famiglia regnante. L’altro a bordo di Lancia Aurelia B24S del 1956, lanciata a folle velocità, come l’Italia che adesso sforna macchine a tutto spiano, sull’omonima strada consolare e che esce di strada, chissà se Risi sapeva? Proprio ad un paio di curve da…Calafuria!

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Più famoso e di effetto il secondo spezzone filmico, ma enorme, nelle sue conseguenze, lo scandalo Montesi: un fatto di cronaca nera avvenuto in Italia il 9 Aprile 1953. La morte della ventunenne Wilma Montesi, ritrovata senza vita sulla spiaggia di Torvaianica. Sono anni dove anche le donne adulte non escono di sera di casa, figuriamoci una giovane.
Poi Wilma è proprio una brava ragazza, del ceto popolare. Chi e cosa può averla condotta così lontano da Roma? E quali sono le cause della morte di questo giovane corpo, che oggi richiamerebbe, vedete come sono peggiorati i tempi? L’inquinamento da plastica o dai rumori o delle infernalità di cui l’uomo ha infettato persino gli oceani! Ricordate Lucio Dalla?

Siamo noi, siamo in tanti
Ci nascondiamo di notte
Per paura degli automobilisti, dei linotipisti
Siamo i gatti neri, siamo pessimisti
Siamo i cattivi pensieri

Così stanno uccidendo il mare
Così stanno umiliando il mare
Così stanno piegando il mare

Lui si rifugiava alle Tremiti, oggi anche quelle divenute meta di turme di turisti che tutti invadono, tutto distruggono ed il suo angolo di pace sta diventando una casa museo, dove nessuno imparerà che se si vuole rispettare Lucio ed il mare, non si deve andare in vacanza con aerei che spruzzano kerosene sulle nuvole!

Ma nel 1953, si poteva ancora sognare! La guerra era passata appena da otto anni e i sogni correvano veloci come la Vespa di “Vacanze Romane” che si girava in quei mesi (ricordati dai Mattia Bazar nella canzone omonima) e Gregory Peck ed Audrey Hepburn che per quella interpretazione non meno magistrale del compagno otterrà l’Oscar! E la Vespa sfornata a pieno regime dalla Piaggio poco più a Nord, a Pontedera di Pisa non farà a tempo a soddisfare la clientela con la 125 cc. Mod51 del film, ribassata grazie al Piano Marshall al prezzo non popolare di 150.000 lire. E bisogna mettere bene i soldi da parte, perché in quell’anno un operaio guadagna 35.000 lire al mese e si paga 30 lire per un buon caffè.

Sabato 11 Aprile 1953, è la vigilia di Pasqua, sulla spiaggia di Torvaianica, presso Roma, venne rinvenuto il corpo senza vita della ventunenne romana Wilma Montesi, scomparsa due giorni prima.

La Montesi era una ragazza di origini modeste, figlia di un falegname e nata nel 1932 a Roma, dove risiedeva in via Tagliamento. Tra Nomentana e Salaria, verso il Quartiere Trieste.
Al momento della sparizione era fidanzata e in procinto di sposarsi con un agente di polizia, in servizio a Potenza. Era considerata molto bella, con qualche aspirazione a entrare nel mondo del cinema (aveva anche preso parte ad alcuni film come comparsa o in piccoli ruoli), il cui centro si trovava naturalmente presso la capitale, a Cinecittà, sulla Tuscolana. Era da tutti descritta come riservata e signorile, impegnata a mettere a punto il corredo, in vista delle imminenti nozze, programmate per il Natale di quell’anno.

Il corpo è rinvenuto da un manovale, Fortunato Bettini, che stava facendo colazione presso la spiaggia. Appariva riverso prono sulla battigia, immerso in acqua solo dalla parte della testa. La giovane donna era parzialmente vestita e gli abiti erano zuppi d’acqua. Non aveva però più indosso le scarpe, la gonna, le calze e il reggicalze, ed era sparita anche la borsa con la quale era uscita.

Quindi un furto, un suicidio? Ma perché e come era giunta così lontano?

Alla notizia del ritrovamento i giornali dedicano ampi articoli. Anche se gli inquirenti, – lo abbiamo già detto: erano tempi ben diversi dai nostri, dove tutto sembrava avere un senso, – avevano addirittura interdetto alla stampa l’accesso alla camera mortuaria dove era conservato il corpo. Tuttavia, con uno stratagemma, il cronista giudiziario del Messaggero, Fabrizio Menghini, riuscì a introdurvisi e a vedere il corpo. La descrizione che ne fece il giorno dopo, sulle colonne del quotidiano romano, permise al padre della ragazza, Rodolfo Montesi, di presentarsi per il riconoscimento del cadavere.

Dalla ricostruzione degli ultimi movimenti, emerse che la ragazza non era rientrata a casa per cena addirittura da due giorni, cioè la sera del 9 Aprile, contrariamente alle proprie abitudini. ED anche se erano altri tempi e non si era portati subito a pensar male, è strano che i genitori non si fossero allarmati o avessero iniziato ricerche.
La madre, insieme all’altra figlia, Wanda, aveva trascorso il pomeriggio al cinema assistendo alla proiezione del film “La carrozza d’oro” e affermò che Wilma aveva declinato l’invito ad unirsi a loro, perché non le piacevano i film con Anna Magnani, aggiungendo che forse sarebbe uscita per una passeggiata. Al rientro, le due donne si accorsero che Wilma era assente, ma, stranamente, aveva lasciato in casa i documenti (e allora era obbligatorio averli con sé e mostrarli a richiesta) e alcuni gioielli di modesto valore, dono del fidanzato, che abitualmente indossava quando usciva. La portiera dello stabile in cui vivevano i Montesi affermò di averla vista uscire attorno alle 17:30 e di non averla più vista in seguito.

Alcuni testimoni affermarono invece, di averla vista sul treno che da Roma portava a Ostia verso le 18:00: ma tra Ostia e Torvaianica vi sono una ventina di chilometri. Il titolare di un chiosco di cartoline situato nei pressi della spiaggia di Ostia sostenne di aver conversato con una giovane apparentemente somigliante alla Montesi, che aveva acquistato una cartolina illustrata e accennato all’intenzione di spedirla al fidanzato a Potenza.

Il corpo venne portato presso l’Istituto di Medicina Legale di Roma, dove venne eseguita l’autopsia: i medici affermarono, aggiungendo a fantasia, una nuova malattia nell’elenco millenario della Tanatologia. Per lor, la probabile causa della morte sarebbe stata una «sincope dovuta a un pediluvio»! Va be’ che erano i tempi in cui le madri, le poche che andavano in villeggiatura, costringevano i figli a fare il bagno non prima di tre ore dopo il pasto o ciò che avevano mangiato sulla spiaggia che tra pochi anni verranno invase da venditori di bomboloni e cocco, antenati dei vu’ cumprà? ma addirittura pensare ad una sincope da pediluvio…Forse “qualcuno” era già intervenuto su quella che moltissimi anni dopo si definirà “la scena del delitto”?
Non c’erano i plastici di Vespa pagati dai contribuenti, perché lui aveva 9 anni e non c’era neppure il canone le trasmissioni sarebbero iniziate l’anno dopo, ma c’erano i “baroni” ospedalieri ed universitari che conclusero che, con molta probabilità, la sfortunata ragazza aveva approfittato della gita al mare per mangiare un gelato (i cui resti furono rinvenuti nello stomaco) e fare un pediluvio in acqua di mare per alleviare una fastidiosa irritazione ai talloni di cui – a detta dei familiari – soffriva da qualche tempo. Per fare ciò, la Montesi si sarebbe sfilata scarpe e calze e, molto probabilmente, anche gonna e reggicalze, per poi immergersi in acqua, venendo tuttavia colta da un malore che il medico legale ricollegò al fatto che la ragazza si trovasse nei giorni del ciclo mestruale! Una volta scivolata in acqua priva di sensi, la Montesi sarebbe annegata!
Alla faccia della Medicina Legale! Avrebbe apostrofato Totò che in quell’anno girava addirittura 4 film, tra cui anche il celebre: “Turco napoletano”.

La distanza tra Ostia (il presumibile ultimo avvistamento della ragazza) e il punto del ritrovamento venne giustificata, sostenendo che lo spostamento del corpo fosse stato dovuto a una complessa combinazione di correnti marine. Vedete come agivano i nonni dei virologi?!
Dall’autopsia emerse che la ragazza era ancora vergine e non aveva subito violenza, come evidenziato dal fatto che il volto era ancora perfettamente truccato e lo smalto sulle unghie delle mani intatto. Anche se, in seguito, tuttavia, un altro medico, il professor Pellegrini, affermò che la presenza di sabbia nelle parti intime della ragazza poteva essere spiegata solo come conseguenza di un tentativo di violenza. Non vennero rinvenute tracce di stupefacenti o di alcool nel suo corpo. Molto probabilmente i mezzi erano quello che erano, ma soprattutto mancava l’esperienza attuale!!

Nonostante la chiusura del caso, la stampa si mostrò, giustamente, scettica. “Il Roma”, quotidiano monarchico napoletano, il 4 Maggio cominciò ad avanzare l’ipotesi di un complotto per coprire i veri assassini, che sarebbero stati alcuni potenti personaggi della politica!
C’era stata una soffiata? E altrimenti, perché questa uscita, come quella di Totò…napoletana?
L’ipotesi presentata nell’articolo era già “sparata” come si dice in gergo, nel titolo: “Perché la polizia tace sulla morte di Wilma Montesi?”. Segno evidente, che l’autore Riccardo Giannini ed il direttore avevano in mano qualcosa di potente.
Il Direttore del giornale di Achille Lauro il “Comandante” ultramonarchico che si procacciava voti nella leggenda napoletana, regalando scarpe: la sinistra prima del voto, la destra dopo la verifica se nel seggio il voto c’era stato, arrestato dagli Alleati angloamericani e internato nel campo di concentramento di Padula, in provincia di Salerno, sospettato di aver conseguito “profitti di regime e illecito arricchimento” e poi sindaco partenopeo, che in quell’anno addirittura avrebbe avuto alle politiche del 1953 658.000 preferenze risultato mai non dico eguagliato, ma mai avvicinato da nessuno alla Camera! E qui cade la leggenda delle scarpe perché neanche Napoli ne poteva produrre tante! Non solo ma appoggiò anche l’Uomo qualunque di Giannini parente del Giannini dell’articolo? Che però alle stesse politiche non passò.

Ma l’articolo ebbe un seguito ed un’eco enorme! Subito ripreso, come se fosse atteso, ci fu la corsa a mettersi a capo di questa campagna mediatica. Vi erano prestigiose testate nazionali, quali il Corriere della Sera e Paese Sera, ma anche piccole testate scandalistiche, quali Attualità, ma grande protagonista, in senso mediatico, fu il cronista del Messaggero Fabrizio Menghini, che aveva seguito il caso sin dall’inizio. La notizia, comunque, si diffuse su tutte le testate locali e nazionali.

Il 24 Maggio 1953, un articolo di Marco Cesarini Sforza, pubblicato sulla rivista comunista “Vie Nuove”, creò molto scalpore: uno dei personaggi apparsi nelle indagini e presumibilmente legati alla politica, sinora definito «il biondino», venne identificato nella persona di Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista jazz (noto col nome d’arte Piero Morgan: non chiedeteci chi l’ha ripreso), fidanzato addirittura di Alida Valli, baronessa e “vedova” di un celebre aviatore amico di Indro Montanelli e del Gen. Giuseppe Casero, che fu membro della prima commissione d’inchiesta sul “caso Mattei”, membro della Loggia P2 e implicato nel Golpe Borghese e che, avendo ben indagato, sposerà proprio la vedova del petroliere Mattei, Margherita paulas nota come Greta, ballerina austriaca! caduto, ma in combattimento contro gli Hurricane inglesi, non dalla nostra contraerea come Balbo, pur sempre nei cieli di Tobruk.
Ma, quel “biondino” che creerà gran parte della “colonna sonora” dei ruggenti anni del Boom italiano, commentando musicalmente e magistralmente, quasi tutti i film di Alberto Sordi, qualche anno dopo si sarebbe detto: “Nientepopodimenoche!” era figlio di Attilio Piccioni, Vicepresidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e fra i massimi esponenti della Democrazia Cristiana! Il nome di «biondino» era stato attribuito al giovane da Paese Sera, in un articolo del 5 Maggio, in cui si raccontava di come avesse portato in questura gli indumenti mancanti alla ragazza assassinata. L’identificazione con Piero Piccioni era un fatto noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai svelata l’identità al grande pubblico. Su “Il merlo giallo”, testata di destra, era addirittura apparsa già ai primi di maggio una vignetta satirica in cui un reggicalze, tenuto nel becco da un piccione viaggiatore, veniva portato in questura, un chiaro riferimento all’uomo politico e al delitto!

Ma chi era in verità quel “piccione” a cui si era aperta la caccia?

Il figlio allora quasi sconosciuto o il padre, designato nientepopodimenoche da Alcide De Gasperi (già l’omnipotente austriaco che era stato onorevole a Vienna, e la cui famiglia aveva sparato contro i nostri Alpini nella guerra del 1915-18 e che noi con grande acume e sensibilità politico avevamo mandato a rappresentare l’Italia alla pace di Parigi!) che già non stava bene (sarebbe morto nell’Agosto del 1954) ed aveva fatto intendere chiaramente che il suo successore sarebbe stato…Attilio Piccioni!

La notizia quindi aveva del clamoroso. Tanto più che veniva pubblicata poco prima delle elezioni politiche del 1953, dove la DC perse, non solo per questa vicenda, che certo incise, più dell’8%.

Del resto il tempismo tra delitto Montesi e le vicende politiche italiane aveva dello stupefacente! E non usiamo l’aggettivo (e solo l’aggettivo!) a caso! Per il sostantivo o, se volete. Per la sostanza, c’è tempo.

Fatto sta che il grande capo trentino (anche se De Gasperi è cognome più bolzanino nonno guardia forestale, padre della gendarmeria, fratello seminarista come lui stesso, fratello soldato austriaco) invece di defilarsi alla Giolitti, rifiuta un’apertura a destra vaticinata e molto attesa in Vaticano, ma lavora per tutto il ’53 in Italia, e alla Camera con molte discussioni, polemiche e disordini per il varo della riforma elettorale, definita dalla sinistra “Legge Truffa”.
De Gasperi perde anche il self-control, quando dai banchi del Senato si tornò all’accusa di “austriacantesimo”, urlando che era ora di finirla con queste insinuazioni, accuse, calunnie, che erano dette e sfruttate solo per propaganda elettorale: “Io ho agito da uomo d’onore che ha lavorato tutta la vita per la difesa di Trento e Trieste”. Che erano austriache.
La famosa legge, che intende “strangolare” la dialettica parlamentare con un grande premio di maggioranza, diviene definitiva il 31 Marzo 1953 al Senato dopo una seduta ininterrotta di 77 ore e 50 minuti, e dove non mancarono incidenti, tafferugli, schiaffi e ferimenti di ministri.

Wilma Montesi sarà trovata morta 11 giorni dopo. Ma forse è morta molte ore prima.

Le elezioni si fecero comunque il 7 Giugno e la legge non scattò per quarantamila voti appena!

La morte di Wilma, per coloro che credevano in una democrazia senza premi di maggioranza, non fu vana. La Chiesa invece aprirà un procedimento per beatificare Alcide De Gasperi.

Di fronte all’alto numero di schede non valide (1.317.583 alla Camera e 1.173.850 al Senato) qualcuno vorrebbe fare annullare le elezioni e ritornare alle urne. Siamo al parossismo e anche all’irresponsabilità totale (o a un altro tentativo immorale).
Alcide De Gasperi (ma la pagherà cara!) e perfino lo stesso Scelba hanno più lucidità di alcuni “pazzi”. Scongiurano questa scellerata scelta che potrebbe portare il Paese (con un’altra infuocata campagna elettorale) a uno vero e proprio scontro, perfino incontrollabile sul piano dell’ordine pubblico, una guerra civile.

E guarda caso, nel momento di maggiore tensione sociale degli anni del centrismo, l’assedio ideologico – da cui esso si sentiva stretto, da parte delle opposizioni di destra e di sinistra – aveva spinto il governo a richiamarsi a questa esigenza, cioè istituire una legge, la Legge Scelba appunto, per introdurre qualunque apologia del Fascismo ma in pratica per bloccare qualunque iniziativa antisistema e varare un comitato interministeriale presieduto da Mario Scelba incaricato dal governo De Gasperi di coadiuvare il ministro Attilio Piccioni nell’aggiornare la legislazione circa la sicurezza del Paese!

Era ormai chiaro a De Gasperi che la “legge truffa” non solo non aveva fatto guadagnare voti al centro, ma aveva, rispetto al 1948, (che la legge truffa è figlia dell’arroganza nata proprio dopo le elezioni del 18 Aprile con la defenestrazione voluta dagli Americani di comunisti e socialisti dal governo) fatto perdere il 13%. (alla sola DC l’8,4%). Era una vera Caporetto. Un’altra tornata alle elezioni, nella migliore ipotesi e pur senza una temuta guerra civile, avrebbe peggiorato sicuramente una situazione già molto critica.

Ma l’estate successiva, segnata dalla caduta del governo De Gasperi, che si è dovuto piegare al Paese ed è rimasto stritolato tra USA e Vaticano e dalle polemiche per la cosiddetta «legge truffa», trascorse comunque senza che la vicenda riaffiorasse nelle cronache!
Piero Piccioni querelò per diffamazione il giornalista e il direttore del periodico “Vie nuove”, Fidia Gambetti.

Ma le cose andavano avanti. Anche se con una lentezza democristiana.
Cesarini Sforza direttore di Vie Nuove che aveva pigiato sul fatto venne sottoposto a un duro interrogatorio. Lo stesso PCI, movimento di riferimento del giornale e, per ora: solo per ora, perché vedremo che in seguito …unico beneficiario «politico» dello scandalo, addirittura disconobbe l’operato del giornalista, accusato di sensazionalismo e minacciato di licenziamento. Segno che i rapporti “profondi” esistevano già allora e l’invenzione del Compromesso Storico si deve a Palmiro Togliatti ed alla svolta di Salerno. Altro che Berlinguer!
Nemmeno sotto interrogatorio Cesarini Sforza citò mai direttamente il nome della fonte da cui ufficialmente veniva la notizia, limitandosi però ad affermare che provenisse da «ambienti dei fedeli di De Gasperi»!!

Anche il padre del giornalista, un influente docente di filosofia all’Università La Sapienza, suggerì al figlio di ritrattare, consiglio vivamente sostenuto anche dal celebre avvocato Francesco Carnelutti, che aveva preso le parti dell’accusa per conto di Piccioni. L’avvocato di Marco Cesarini Sforza, Giuseppe Sotgiu (già presidente dell’Amministrazione provinciale di Roma ed esponente del PCI) si accordò col collega, e il 31 Maggio Cesarini Sforza ritrattò le sue affermazioni. Come ammenda, versò 50.000 lire in beneficenza alla “Casa di amicizia fraterna per i liberati dal carcere” e in cambio Piccioni lasciò cadere l’accusa. Nonostante nell’immediato lo scandalo per la DC apparisse così escluso, ormai il nome di Piccioni era stato citato ed in seguito sarebbe ritornato alla ribalta.

“Capocottari!!”

Il 6 Ottobre 1953, sul periodico scandalistico Attualità, il giornalista e direttore della testata, Silvano Muto, pubblicò un articolo: La verità sul caso Montesi. Muto aveva condotto un’indagine giornalistica nel «bel mondo» romano, basandosi sul racconto di un’attrice ventitreenne che sbarcava il lunario facendo la dattilografa, tale Adriana Concetta Bisaccia. La ragazza aveva raccontato al giornalista di aver partecipato con Wilma ad un festino, un’orgia, che si sarebbe tenuta a Capocotta, presso Castel Porziano e non distante dal luogo del ritrovamento. In quell’occasione avevano avuto modo di incontrare alcuni personaggi famosi, principalmente nomi noti della nobiltà della capitale e figli di politici della Repubblica italiana. Stando al racconto della Bisaccia, la Montesi avrebbe assunto un quantitativo letale di droga – a detta della Bisaccia, «sigarette drogate» – e alcool, e avrebbe avuto un grave malore. Il corpo esanime sarebbe stato trasportato da alcuni partecipanti all’orgia sulla spiaggia, dove fu abbandonato. Tra i nomi citati nell’articolo, vi erano quelli di Piero Piccioni e del marchese Ugo Montagna, proprietario della tenuta di Capocotta. I partecipanti all’orgia, definiti dalla stampa «capocottari», rappresentavano l’alta società romana, ed era facile vedere dietro l’operato delle forze dell’ordine un disegno volto a proteggere questi personaggi.

Silvano Muto fu convocato dal Procuratore della Repubblica, Angelo Sigurani, il quale volle sapere come e perché e cos’altro sapeva Muto. Ma poiché il direttore di Attualità non fornì adeguate e convincenti spiegazioni, venne imputato per aver diffuso «notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico».
Il caso della morte di Wilma Montesi finì archiviato, mentre Silvano Muto fu costretto a tornare in tribunale per essere giudicato. Querelato anche da Montagna, Muto in principio ritrattò parzialmente le proprie tesi, affermando che erano prodotti dell’immaginazione, salvo poi rinnegare la ritrattazione. Anche la Bisaccia, impaurita e forse minacciata, smentì le sue dichiarazioni e il testo di Muto.

Ma dopo il racconto della Bisaccia, ecco, come ad orologeria, una seconda ragazza rilasciò un’altra deposizione compromettente. La donna, Maria Augusta Moneta Caglio Bessier d’Istria, detta «Marianna», «Annamaria» o «il cigno nero», soprannome inventato da Camilla Cederna (per via del lungo collo, portava appunto dei tipici anelli di ottone, e dell’abito nero alla moda esistenzialista che indossava quando venne ritratta la prima volta), era figlia di un notaio di Milano, intelligente e dotata di buona dialettica, e come la Bisaccia stava cercando di arrivare al mondo del cinema. Proprio a Roma era diventata amante di Montagna, marchese di San Bartolomeo, e personaggio attorno a cui ruotava il mondo dei vip romani. Già la ragazza aveva incontrato il procuratore Sigurani due volte e in entrambe le occasioni aveva reso una deposizione sulla vicenda, sempre ignorata!
La Caglio, che aveva avuto con Montagna un’affettuosa amicizia e che proprio in quel periodo si stava guastando, affermava che la Montesi fosse diventata la nuova amante di Montagna (ma non era risultata vergine nell’autopsia?!) e di essere a conoscenza della verità dei fatti: narrò di avere sentito una telefonata tra Montagna e Piero Piccioni, con quest’ultimo che chiedeva all’amico di accompagnarlo da Tommaso Pavone, capo della polizia, perché gli stavano addossando la responsabilità della morte della ragazza.

Tornata dal padre a Milano, si rivolse allo zio, parroco di Lomazzo, per chiedere istruzioni su come agire. Il sacerdote indirizzò la ragazza da un sacerdote gesuita, padre Alessandro Dall’Oglio, al quale la Caglio consegnò un memoriale in cui confermava la responsabilità di Piccioni e Montagna secondo quanto scritto dai giornali. Tramite l’opera di Dall’Oglio, il documento arrivò ad Amintore Fanfani, allora Ministro dell’Interno, e contribuì a far sospendere il processo per il giornalista Silvano Muto, in quanto ormai la teoria non era più la bizzarra invenzione di un giornalista provocatore. Una copia del memoriale venne inviata dalla Caglio anche al Papa.
Il memoriale fu presentato anche a Giulio Andreotti, che in un articolo intitolato La congiura contro Piccioni? Falsità così lo rammenta: «Quando un padre gesuita venne al Viminale a farmi leggere l’esposto di una sua penitente (o qualcosa di simile) […] lessi le prime due righe e gli dissi che non solo non lo trasmettevo a De Gasperi, ma lo classificavo tra quelle perdite di tempo che a Roma diciamo che servono a Natale a fare ora per la messa di mezzanotte».
Ma nelle tante interviste successive, quella grandissima “volpe” (mentre altri animali cadranno come “Antilope Cobbler” proprio per mano di Camilla Cederna che farà dimettere addirittura il Presidente della Repubblica Leone, poi risultato estraneo mentre si sono fatti per lo scandalo Loocked altri nomi tra cui quello di Moro) di Andreotti glisserà sulla grande manovra di Fanfani, ricordando solo l’attacco feroce delle Sinistre, che invece fu molto blando. E che i Democristiani ora in certi comizi, li chiamavano: “Capocottari!!”.

E si dimenticherà anche (quanti ricordi sono svaniti nel Divino Giulio, accusato e poi assolto per la morte di Pecorelli, mentre sui contatti con la Mafia…) che tuttavia una parte della Democrazia Cristiana tendeva a screditare la testimonianza proprio sulla base di presunti legami tra la Caglio e una corrente interna alla DC stessa ed avversa a Piccioni.

In seguito alla diffusione del memoriale, la Caglio venne interrogata segretamente da Umberto Pompei, colonnello dei carabinieri, che ebbe con lei due incontri. Dal memoriale emergeva anche il nome del Capo della Polizia Tommaso Pavone, a cui Montagna e Piccioni si sarebbero rivolti in cerca di protezione.

Il 2 Febbraio 1954 l’Avanti! pubblicò una nota secondo cui il nome di Piero Piccioni, in una mossa a sfondo politico, sarebbe stato fatto da Giorgio Tupini, all’epoca sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per i servizi di stampa e informazione e figlio di Umberto Tupini, Ministro nel successivo governo Fanfani, che si apprestava a richiedere la fiducia in Parlamento! Dopo la bocciatura da parte della Camera dei Deputati, Piccioni padre, che in quel governo Fanfani era Ministro degli Esteri, fu confermato in tale carica dal nuovo Presidente del Consiglio Giuseppe Pella.

Ma la frittata per lui era fatta! E la torta era servita a Fanfani!

Nel frattempo Pompei aveva indagato sui personaggi coinvolti: il 10 Marzo riferì in un rapporto, che Montagna era stato un agente dell’OVRA e un informatore dei nazisti, attività che avevano portato al suo arricchimento. La notizia, seppur poco pertinente con il caso, suscitò grande scalpore e contribuì alla fama di Silvano Muto. Lo stesso giorno, durante un’udienza in aula sull’argomento, i parlamentari comunisti protestarono, urlando «Pavone, Pavone» a fronte delle richieste di fiducia nelle istituzioni avanzate da Scelba. Il giorno successivo, Pavone si dimise dalla carica e il Governo affidò al Ministro Raffaele De Caro un’indagine sull’operato della polizia nella vicenda.

Pietro Nenni, il 14 Marzo 1954, dalle colonne dell’Avanti! ribatté alla teoria innocentista che vedeva gli esponenti della DC come vittime di un complotto, sottolineando come da tempo una parte della stampa, la Chiesa e alcuni organi privati stessero mobilitandosi contro la sinistra parlamentare, allo scopo di screditarla e indebolirla.

Palmiro Togliatti, sull’Unità, spiegava che: «l’ondata degli scandali ha traboccato. […] Corruzione e omertà sono parte integrante del regime instaurato dai clericali e dai loro alleati. La lotta contro omertà e corruzione è parte integrante della lotta contro questo regime. Questo è necessario far penetrare nella mente di tutti coloro che sono pieni di sdegno per i delitti e le complicità che oggi si scoprono».

Nel 2009, Pietro Ingrao, che all’epoca del delitto dirigeva l’Unità, confidò a Stefano Cappellini che la spinta ad occuparsene venne da Fanfani e dai fanfaniani!!
Dalla svolta di Salerno, cioè quando Togliatti dichiarò che erano santi e salvi i confini stabiliti da Yalta, era sottintesa anche se di facciata si faceva finta del contrario, che l’Italia anche per la Sinistra apparteneva a quell’Alleanza Atlantica ed alla Nato che il PCI pur finanziato da Mosca non accettò mai se non nel 1975, quando Berlinguer disse che la lotta contro la Nato era qualcosa che apparteneva al passato, ma intanto estrometteva Cossutta che era l’ultimo garante degli aiuti dell’URSS! E ci si preparava a dare la “solidarietà nazionale” al governo Andreotti!

C’è tutto quel che serviva allora, ai manovratori. E c’è tutto per capire l’Italia di allora ed il mondo che ha generato.
Dal gesuita che consegna il memoriale, al ministro dell’Interno Fanfani che puntualmente – la regia è perfetta – dispone un’indagine di polizia. L’indagine che genera un’inchiesta giudiziaria che farà di un oscuro magistrato, il sostituto procuratore Raffaele Sepe, il disinvolto co-protagonista del pasticcio brutto non di Via Merulana, ma di una capitale d’Italia che oggi appare davvero senza “più campanelli”!!
Il procuratore capo che ama esibirsi nei panni dell’integerrimo nemico di privilegi, ma si concedeva facilmente ai giornalisti, regala loro sue foto, mostra di gradire il plauso popolare. Un antesignano. Che se avesse agito qualche anno dopo sarebbe entrato irrimediabilmente in quell’arena di gladiatori che era la politica! E il procedimento che va non dove ti porta il cuore, ma la politica che è l’arte del possibile, diella scomposizione e ricomposizione di forze! Andrà lontano, assai lontano e sempre più in alto, raggiungendo l’obiettivo prefissato in sede politica, mallevadrice una amministrazione giudiziaria romana ancora e come potrebbe essere altrimenti? strettamente ammanigliata col Palazzo.

Intanto l’intreccio, tra crisi del vertice della Dc e gestione dell’affaire Montesi, si fa ancor più chiaro, addirittura sfacciato. L’organo dell’allora Psi, “L’Avanti!” denuncia che Giorgio Tupini (figlio di un altro ministro DC, Umberto) non è estraneo alla diffusione del nome di Piero Piccioni. E il governo – di Scelba! – annuncia, proprio in riferimento all’eco enorme del caso Montesi, nientemeno che «misure contro l’azione delle forze totalitarie di cui è stata provata la dipendenza da paesi stranieri». Siamo al grottesco. Ma non è finita. (Lo scandalo toccherà ancora il Vaticano, oltre che con il memoriale consegnato al papa o alle pressioni che il processo svela meglio di un giornale politico su De Gasperi perché si pare a destra, non toccando con le leggi Scelba il MSI e si pari a sinistra, lavorando con le scissioni di Saragt! quando si scoprirà che il “marchese” Montagna era stretto amico del medico di Pio XII, Riccardo Galeazzi Lisi. L’archiatra che più tardi, alla morte di papa Pacelli, verrà sputtanato e cacciato con disdoro per aver fotografato il papa agonizzante e poi venduto le immagini ad un’agenzia di stampa!

Paese Sera intanto, il 17 Marzo 1954 pubblicò uno scoop sensazionale: una foto del Presidente del Consiglio Mario Scelba ritratto insieme a Montagna alle nozze del figlio di un deputato democristiano e la tesi della «pastetta» politica prese sempre più piede.

Il Giornale d’Italia annunciò in un articolo l’emissione di un mandato di cattura nei confronti di Ugo Montagna, il quale, letta la notizia, si recò spontaneamente in carcere. Agli ufficiali carcerari, tuttavia, non risultava alcun ordine di carcerazione e Montagna venne congedato.

Fanfani affidò un’inchiesta al colonnello dei carabinieri Umberto Pompei, comandante della Legione Lazio. Il rapporto che stilò era pieno di sottintesi colpevolisti: c’era scritto che Montagna ospitava nella sua villa donne di dubbia moralità per: «soddisfare i piaceri e i vizi di tante personalità del mondo politico», e che non si poteva escludere che il marchese avesse favorito convegni con uso di droga e invitati di alto rango alla Capocotta, né che uno di quei convegni fosse finito malamente. Il magistrato della sezione istruttoria della Corte d’appello di Roma, Raffaele Sepe, cominciò le indagini processuali, esumando la salma della Montesi e ordinando perizie e interrogatori. Molte delle accuse a personaggi secondari e solo vagamente correlati alla vicenda caddero, ma da questa fase parve emergere un disegno preciso che avrebbe legato Piccioni, Montagna e i vertici delle forze dell’ordine romane.

Il 26 Marzo 1954, il caso Montesi fu ufficialmente riaperto dalla Corte d’appello di Roma. Il 19 Settembre lo scandalo era tale che Attilio Piccioni si dimise da Ministro degli Esteri e da tutte le cariche ufficiali.
Due giorni dopo, Piero Piccioni e Ugo Montagna furono arrestati, rispettivamente con l’accusa di omicidio colposo e di uso di stupefacenti il primo, e di favoreggiamento il secondo e inviati al carcere di Regina Coeli (Piero Piccioni otterrà la libertà provvisoria dopo tre mesi di carcere preventivo).
Con loro venne arrestato il questore di Roma, Saverio Polito, imputato di favoreggiamento (secondo l’accusa aveva cercato d’insabbiare la verità per compiacere il prefetto Pavone, il ministro e il figlio del ministro), e furono imputati altri nove personaggi coinvolti nei fatti, tra cui il principe Maurizio d’Assia, primogenito di Mafalda, principessa di Casa Savoia, abbondonata dalla Corte in fuga, l’8 Settembre 1943, ad essere arrestata e poi morire sotto bombardamento americano al campo di Buchenwald e di Filippo, già intimo e discusso amico di Hitler e del cognato, il Re di Maggio.

Nonostante tutto però, non si sa perché, i genitori di Wilma Montesi erano certi dell’innocenza di Piero Piccioni. E il 30 Settembre su “Il Messaggero” il giornalista Fabrizio Menghini (che aveva seguito il caso con continuità) avanzò la velata ipotesi che vi potessero anche essere indizi in un’altra direzione, ovvero indizi che avrebbero potuto accusare il giovane zio della vittima, Giuseppe Montesi. Il giovane sarebbe stato molto attaccato alla ragazza, se non addirittura invaghito di lei, tanto da averla in più occasioni invitata a rompere il fidanzamento anche in considerazione del fatto che, secondo numerosi testimoni, tra Wilma e il giovane il rapporto non fosse dei migliori. A peggiorare la sua posizione, quantomeno agli occhi della stampa scandalistica, Giuseppe Montesi era considerato, per l’epoca, un libertino, uno che si vantava delle proprie numerose avventure galanti, che intratteneva rapporti con personaggi di dubbia reputazione e possedendo un’auto avrebbe potuto trasportare Wilma, viva o morta, sul luogo del ritrovamento. L’ipotesi fu avanzata con tono sarcastico, ma fu presa seriamente dall’opinione pubblica per via delle parole del leader socialdemocratico Giuseppe Saragat, che su La Giustizia affermò che il caso era vicino a una svolta drammatica e alla rivelazione del colpevole.
Già, Saragat, poi Presidente della Repubblica, il primo non democristiano, se si eccettua De Nicola, che contrario al proseguimento dell’alleanza tra i socialisti e il Partito Comunista Italiano, e favorevole al “trasloco” dell’Italia in campo atlantico, nel Gennaio del 1947 aveva dato vita alla cosiddetta “scissione di palazzo Barberini”, dalla quale ebbe origine il Partito Socialista dei Lavoratori Italiani. Poche settimane dopo Alcide De Gasperi aveva rotto (dopo il celebre viaggio in America) l’accordo con i socialisti “nenniani” e i comunisti. Quando il PSLI entrò nella coalizione centrista dei governi De Gasperi, Saragat fu più volte vicepresidente del Consiglio e apostrofato dal sanguigno Onorevole Pajetta, come “il traditore del Socialismo”. Già, Pajetta, ve lo immaginate se incontrasse Renzi o Letta?

Anche il comportamento evasivo di Giuseppe Montesi contribuì a rendere credibile una tesi basata su mere illazioni: inizialmente, infatti, non volle dire dove si trovava la notte dell’omicidio. In seguito, nell’interrogatorio coi giudici, ammise che stava trascorrendo la serata con la sorella della sua fidanzata, dalla quale in seguito ebbe anche due figli.

Il 16 Novembre 1954, un ulteriore scoop scosse il caso: due giornalisti di Momento Sera, impegnati in un’inchiesta sulla morte di Maria Teresa Montorzi detta «Pupa» (una ragazza morta per abuso di droga in una situazione apparentemente simile allo scenario «capocottaro» ipotizzato per il caso Montesi) scoprirono una casa d’appuntamenti a Roma, in via Corridoni 15. Durante un appostamento notarono Giuseppe Sotgiu, uomo politico di spicco del PCI e avvocato difensore di Silvano Muto, nonché presidente dell’amministrazione provinciale di Roma. Sotgiu venne fotografato mentre entrava nel bordello in compagnia della moglie ed emerse che questa vi si recava per avere rapporti sessuali con alcuni giovani, tra i quali un minorenne, consenziente il marito. Il fatto intaccò pesantemente la credibilità dei principali accusatori.

Il 20 Giugno 1955 Piccioni, Montagna e Polito furono rinviati a giudizio da Sepe presso la Corte d’assise, iscritti tra gli imputati per un processo penale sulla vicenda.

Il 21 Gennaio 1957 si va “in gita” a Venezia dove si aprì il dibattimento. Vi ricordate di “Piazza Fontana” finita addirittura da Milano a Catanzaro? Anche allora c’era la legittima suspicione…Montagna negò di aver conosciuto la Montesi, e Polito, ormai in pensione, confermò la tesi ufficiale dell’incidente in mare.

Alida Valli depose in favore di Piccioni, confermando che i giorni precedenti il decesso della Montesi, Piero Piccioni era con lei a Ravello. Il musicista lasciò quella località lo stesso 9 Aprile, rientrando nella sua casa di Roma poco dopo le 14:00 e poche ore dopo si trovava nello studio di un noto clinico per una visita alla gola, ove lamentava un forte dolore. Dietro suggerimento del medico si era messo a letto e ci era rimasto anche il giorno successivo, come potevano testimoniare l’infermiere, che gli fece l’iniezione quella sera stessa, un medico che lo visitò il giorno dopo e gli amici che si recarono in visita a casa sua. L’alibi comunque era già noto agli inquirenti nella fase istruttoria. Alle 0:40 del 28 Maggio il tribunale riconobbe gli imputati innocenti e li assolse con formula piena, su richiesta del procuratore Cesare Palminteri.

Il processo a Muto (difeso anch’egli da Sotgiu) e alla Bisaccia per le accuse di calunnia si concluse con una condanna a due anni per il giornalista e a dieci mesi per la Bisaccia, con pena sospesa, per quest’ultima, grazie alla condizionale. Anche la Moneta Caglio fu sottoposta a processo, e venne condannata a 2 anni nel 1966, in Cassazione.

Sul processo, sulle persone coinvolte, venne fuori tutto ed il contrario di tutto.

Addirittura si è scritto anche da persone autorevoli che Wilma Montesi non poteva essere andata ad un festino con calze rammagliate, dimenticando che all’epoca le calze si usavano fino a che non erano davvero lacere ed il mondo del consumismo era solo all’alba.
Quello che colpisce è come la gente seguiva le vicende: quelle di cronaca nera, comeil Giro d’Italia: di fronte all’apatia per tutto e tutti di oggi, sembra di essere sbarcati su un altro pianeta.
Non occorre che vi dica quale preferisco.
La vittima era una bella ragazza, giovane e di modeste origini, apparentemente irreprensibile e con una vita ordinata e regolare: non era difficile per i lettori affezionarsi al personaggio. Il fatto che la vittima fosse stata asserito di essere stata rinvenuta ancora vergine (tanto che, per i funerali, la salma fu vestita col tradizionale abito da sposa bianco!) escludeva tutta una serie di implicazioni che avrebbero reso la vicenda troppo scabrosa e compromettente per ricevere un tale rilievo sulla stampa nazionale. Comprensibilmente, i genitori della Montesi si prodigarono nel dipingere la figlia defunta come una ragazza seria e morigerata, unicamente concentrata sul matrimonio imminente, profondamente religiosa e legatissima ai famigliari. Tuttavia, alcune amiche e vicine di casa della ragazza, subito dopo la sua morte, rivelarono aspetti di Wilma che apparentemente contraddicevano tale immagine pudica: la passione di Wilma per cosmetici, profumi e abiti costosi, l’abitudine di fumare sigarette recentemente acquisita, il possesso di accessori di lusso come una costosa borsa di pelle di antilope ed alcuni gioielli. La domestica dei Montesi riferì che la ragazza aveva l’abitudine di ricevere telefonate a cui rispondeva solo dopo aver chiuso la porta perché nessuno potesse udirla, e riferì che Wilma e la sorella avevano frequenti scontri con la madre, che ritenevano volgare e intrattabile. Infine, la madre della giovane, pur insistendo pubblicamente sulla serietà e correttezza di Wilma, fu intercettata mentre si sfogava al telefono con un parente commentando che «Wilma si è rovinata da sola». Emerse inoltre una certa insoddisfazione da parte della stessa Wilma nei confronti del fidanzato, da lei ritenuto eccessivamente geloso. In base all’esame di un’agenda a lei appartenuta – e dalla quale risultarono essere state strappate le ultime pagine – dove la ragazza aveva l’abitudine di copiare le lettere che si scambiava con il futuro marito, alcuni inquirenti e giornalisti conclusero addirittura che il fidanzamento fosse stato rotto, dettaglio che non fece che aumentare le speculazioni su possibili pretendenti della giovane, ivi compreso lo zio Giuseppe.

Inoltre, la tesi della responsabilità dei “capocottari” contrapponeva, per gran parte dell’opinione pubblica, il mondo gaudente e corrotto della cosiddetta aristocrazia “nera”, della politica romana e in genere dei ricchi e potenti della Capitale, all’ambiente sociale popolare da cui proveniva Wilma Montesi, raffigurando quest’ultima come la vittima dell’incontro tra le sue ingenue ambizioni artistiche e il cinismo amorale di chi le aveva sfruttate impunemente a fini sessuali, certo di poter contare sulla connivenza dei vertici della polizia. Pur nell’evidente diversità delle situazioni, un analogo contrasto tra l’estrazione sociale della vittima e quella dei suoi assassini contribuirà, oltre un ventennio dopo, al clamore mediatico del massacro del Circeo.

Tutti questi elementi andavano a stimolare l’interesse dei lettori comuni. Anche il fatto che le due principali accusatrici fossero giovani di bell’aspetto e legate al mondo dello spettacolo aumentava l’interesse verso la vicenda.

In secondo luogo, sin dall’inizio, emerse il coinvolgimento di personaggi di primo piano sulla scena politica. Dapprima citati come anonimi (fattore che suscitò ancora di più l’attenzione dei giornali e l’interesse del pubblico), quando i nomi vennero resi pubblici la loro rilevanza rese la vicenda di grande centralità anche per i lettori interessati di politica.

La vicenda assunse i tratti di una guerra tra tutti i partiti di maggioranza, ma anche tra fazioni all’interno della stessa DC, che da sola riscuoteva i consensi di poco meno del 50% dell’elettorato. Di fatto, il coinvolgimento dei vertici democristiani in una questione simile era un grave danno all’immagine del partito. In particolare Attilio Piccioni vide definitivamente compromessa, a causa del coinvolgimento del figlio, la sua promettente carriera politica, dimettendosi da Ministro degli Esteri nel settembre 1954 (sostituito dal liberale Gaetano Martino): una circostanza da cui trasse beneficio principalmente Amintore Fanfani, che si affermò così come il successore di De Gasperi alla guida del partito di maggioranza relativa. Analogamente, talune vicende correlate al caso (lo scandalo Sotgiu) furono una vera tempesta per il PCI, la seconda forza politica dell’epoca, facendo traballare quella supposta superiorità morale che è sopravvissuta …indegnamente, fino agli anni Berlusconi, quando si contrapponeva il ricco, spudorato imprenditore, senza morale corrotto ed un partito di duri e puri! Il caso andò dunque a colpire trasversalmente la quasi totalità dell’arco parlamentare.

Di grande interesse divenne anche l’aspetto giudiziario della vicenda, con una giostra di denunce, querele e controquerele che arrivarono a coinvolgere i principali e più noti avvocati dell’epoca.

Fanfani, uno dei due “cavalli di razza della DC”, l’altro sarebbe stato, secondo Donat Cattin, Moro, ma la “volpe2 credo sia riuscita anche con l’anagrafe a correre più a lungo e più veloce, già professore di Mistica Fascista, notorie le sue posizioni razziste, nel 1954 formava il suo primo governo, senza però ottenere la fiducia.

Ma sempre nel 1954, ad un anno dal delitto Montesi, venne eletto segretario della Democrazia Cristiana in quanto leader della corrente “Iniziativa democratica”.

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