Strage di Via D’Amelio : Paolo Borsellino

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Scarantino Vincenzo – collaboratore di chi ?

Davide era arrivato a punta Raisi, poi passando da capaci si era fermato a portare dei fiori. Ancora si vedevano i segni di una strage che non aveva aperto solo un cratere sull’autostrada, ma spalancata un valanga, una slavina su certe connessioni indicibili, sui cosiddetti servizi deviati che se si capisce da dove, non si sa mai da chi e perché. Uno sguancio nazionale che aveva avuto un deflagrante conferma poco dopo con la morte di Borsellino e la sparizione di quella agenda rossa.

Per questo eravamo venuti a Palermo. Io da Roma, in macchina, con innumerevoli, infinite interruzioni sull’autostrada che diventavano una costante dopo Napoli. E non erano estranee ai fatti che andavamo ad indagare. Anzi contigui, conseguenziali, come la politica e le mafie.

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Davide con il fiuto che lo ha sempre contraddistinto non si convinceva su Enzo Scarantino. Scarantino, chi? Un mezzo picciotto, di cui incredibilmente la mafia si sarebbe servita per rubare una 126 e imbottirla di tritolo per far saltare il giudice Borsellino e quasi tutta la sua scorta (se ne era salvato solo uno avanti alla casa della madre. Quasi a fare una sceneggiata siciliana.

Reina in un colloquio in carcere anni dopo avrebbe detto la stessa verità: “Ma vi pare che se avessi dato un ordine tale, mi sarei servito di un Enzo Scarantino?!”.

Per vederci chiaro girammo un paio di giorni per Palermo dove Davide dove prendere certe informazioni contattò certi individui e qualche avvocato ed ex collega.

Poi decidemmo di andare in via ….quartiere Brancaccio, ad altissima concentrazione mafiosa. La via, assolata era vuota, se non per un individuo grasso come gli affari della mafia, alto come un giocatore di basket, appoggiato a duna porta a 2/3 della via. Sembrava un meccanico a vedersi delle tuta che una volta doveva essere di un celeste sbiadito come il cielo di Palermo in certe sere di quella primavera. Ma sulla sua divisa c’erano più macchie di grasso ed olio che delitti in quella stagione dove la mafia sembrava aver imboccato una strada. Qualcuno dirà verso un suicidio. Qualche altro dirà per mutare la pelle come fanno i serpenti quando crescono!

Davide, nato alla Calza, in preciso palermitano, chiese dove fosse casa Scarantino Vincenzo. Il gigante con grande fatica, alzo il mento barboso verso l’area calda del Brancaccio. Solo dieci minuti dopo scoprimmo che era quasi appoggiato alla porta di Scarantino.

Appena Davide entrò in casa, la madre una bella donna sui 60 anni, alta, dignitosa come la casa, nonostante l’ingresso, ebbe uno scatto felino. Afferrato l’album delle foto del matrimonio del figlio Lo gettò sul tavolo con rabbia. Noi pensammo che ci aveva presi per poliziotti e forse per membri abbastanza travestiti dell’altra sponda. Fatto sta che inveiva contro suo figlio dicendo che non lo riconosceva più e che lei non era più sua madre. Si aggiungeva la sorella ed il cognato che alzava ed abbassava la testa in segno di assenso. Poi, appena calmatasi, ci disse che la mattina dopo sarebbe andata ad incatenarsi ai cancelli del tribunale perché voleva la verità. Voleva sapere chi lo aveva convinto ad accusare gente che non centrava niente con la strage di via D’Amelio.. Già la volevamo anche noi… Chi ha consigliato o costretto suo figlio a dire tutte quelle falsità?: “Lui, che cavolo ne sapeva di quegli attentati. Cose grosse che male si adattano a uno come Vincenzo!”.

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Bella e intelligente! Avevamo conferma dei nostri sospetti. O per farsi grosso o per guadagnare fingendosi tale o per altre misteriose vie, Scarantino si era addossato una colpa molto più grossa di lui. Perché?

La conferma l’avemmo qualche minuto dopo all’uscita da casa di Scarantino. Il “meccanico” non c’era più ma la via si era animata come fosse diventata un luogo di appuntamenti da happy hour di diversa latitudine, perché i Palermitani escono molto Più tardi, viste le temperatura. Qui quel giorno la temperatura era salita molto! Ai due verti della via si erano formati come due “blocchi” di persone: forse quindici-venti dietro, poco più all’altro lato. Come dicono qui: “La cosa si fa grossa!”.

Indugiammo agli sportelli. Davide mi offerse una pistola di riserva che aveva nel cruscotto, che rifiuta, prima perché preferisco ricevere uno schiaffo che darlo, secondo perché se sparassi ad un uomo a dieci metri di distanza questa sarebbe un’assicurazione sulla vita e sulla sua incolumità!

E si avvicinavamo! Ora i due blocchi convergevano. Ed i primi giunti al bordo della macchina, la tastavano come fossero acquirenti in un salone di auto usate. Spostandoci meno che a passo d’uomo, tra due file ininterrotte di “amici” sfilammo fra gente che ci guardava con un sorriso sapiente. Loro sapevano che noi sapevamo. Io mi imbarcai sulla prima nave per Napoli e di notte guardavo il cielo italiano pensando che su quel percorso avevamo perso Majorana e Ippolito Nievo. E il cielo nonostante le stelle appena velate dal fumo del grosso fumaiolo, non erano migliorate per il nostro Paese.

Infatti Davide, appena giunto a Punta Raisi, per il volo per Pisa, era stato chiamato da uno dei più grossi penalisti di Palermo che lo invitava a restare (ma come faceva a sapere che eravamo nella “sua” città?!) per dargli un incarico prestigiosissimo e per il quale avrebbe potuto chiedere una parcella milionaria. Davide ringraziò sentitamente ma rifiutò con decisione l’offerta di lavoro, mentre saliva sulla scaletta, con la coscienza che non sarebbe cambiato niente in una terra baciata da Dio ma maledetta dagl’uomini. Uomini che si fanno chiamare d’onore, ma che con l’onore non hanno mai avuto nulla a che fare.

Daniele Vanni

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