Balcani, ex Jugoslavia: la storia dello scontro di cui l’Europa non voleva sapere.

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Le guerre “lontane”

Più che una guerra sensata, l’opinione pubblica di mezzo mondo la riteneva conseguenza di una crisi collocata in un mondo tribale irrimediabilmente lontano.

Dove sono i Balcani? La più grossa fatica da compiere sta nel localizzare realmente questa regione del centro- est, per molti una terra di mezzo, promiscua ed incerta. Chissà che, per tanti, i Balcani non stiano esattamente nell’idea di falsa sicurezza, di presunzione di diversità nella diversità, di porzione di mondo che scotta per un motivo mai meglio precisato.
I Balcani e la folgorante immedesimazione nel sentimento acceso di un tribale mai troppo compreso è — da sempre — liquidato come qualcosa di estraneo all’Europa, altro, di avulso dal centralismo di vita che in Occidente si pretende di avere.
In origine c’era il Titocentrismo e la filosofia di coesione che mai nessuno aveva osato mettere in discussione per più di quarant’anni. L’uomo della Provvidenza balcanica dalla fine della Seconda Guerra mondiale aveva vinto ogni istanza di diversità ed ogni scontro retorico o ideologico, riuscendo a tenere insieme, in un solo calderone, tutto ciò che concerneva le rivendicazioni degli slavi del sud; si era eretto a padre delle patrie, anzi dei popoli, riuscendo a mettere in un unico bacino le molteplici civiltà, le tante religioni, i numerosi spazi di pretese ed attribuzioni geo-localistiche creando in un uniforme baricentro di identità (sovra)nazionale il popolo jugoslavo. Belgrado, Zagabria, Sarajevo, Dubrovnik (leggi Ragusa, per gli irredentisti italiani), Skopje e Lubiana parlavano finalmente la stessa lingua di immedesimazione, si rivolgevano allo stesso capo e pregavano tutti i dei che le religioni di Stato contemplavano. Era questa, la Jugoslavia: un politeismo ammesso e controllato, in nome di una ragione superiore, quale bene di coesistenza e condivisione, al netto delle difficoltà di parlarsi, incontrarsi ed andare d’accordo.
Un miracolo del Comunismo, insomma, che sotto la propria stella (quella peraltro ritratta nelle bande del vessillo) teneva uniti tutti. Il grande potere del Paese per eccellenza dei paesi non allineati, poi, ha fatto il resto ed alto è stato posto il nome della Grande Jugoslavia nel delineato assetto del quadro internazionale post- bellico. Mutava il nomen iuris di ogni popolo slavo, in ragione di un’abdicazione volontaria ed in favore di una cessione di potere ad un sistema più ampio e comprendente lo stendardo di tutti che, però, aveva il grosso merito e valore di giocare finalmente, nel mondo, un ruolo di primo piano perché intermediario tra il vicino est sovietico e tra l’ancora più prossimo (Trieste è ad un tiro di schioppo dalla slava Istria) mondo occidentale che risponde al nome di Patto Nato.
Anno 1980: Josip Broz Tito muore e, in dieci anni, viene meno ogni dettame orgogliosamente costruito. Seguiranno anni difficili, di ridimensionamento e ricollocazione effettiva di un mondo, un paese, una nomenklatura, una bandiera, di una rimessa in discussione di tutto, persino del nome di Tito.
Comincia a muoversi qualcosa di strano, che per tanti anni era rimasto soffuso ed ignorato per mezzo di una sedimentazione di nuove coscienze popolari: la gara, tra serbi e croati, di popolo principe (quindi, egemone) all’interno dell’assetto nazionale. Manifesti, pandettistiche di intellettuali, comizi, influenze delle opinioni pubbliche: chi è più slavo degli slavi?
A rispondere a questa domanda, comincia il serbo Milosevic che pone al centro del dibattito l’idea di Grande Serbia; un territorio (o forse, un dato filo- sociologico) dai confini non meglio precisati che si estende fino all’ultimo frangente di territorio abitato da un serbo. L’obiettivo è quello di ricollocare le pareti dell’agire politico fin dove, anche se in Croazia o in Bosnia, arriva ad abitare un cittadino che si sente più belgradese che altro. Di pronta risposta, i croati che da sempre identificano il proprio mondo tra le coste adriatiche e quella parte di terra che, un tempo, si poneva a ridosso dell’Impero asburgico, tendono le armi dei propri diktat di attacco- difesa verso i vecchi fratelli, e asseriscono di non temere nessuno, nemmeno se il costo è quello di una guerra fratricida.
Il resto è storia: una guerra nella guerra che nascondeva accordi bonari delle parti in causa che, dopo la tutto sommato pacifica secessione slovena, ha messo in atto — tra serbi e croati — scontri programmati, ladrocini pirateschi, assedi a villaggi e città mantenendo, comunque, ferma la politica di belligeranza diretta più ad assalti ai simboli (vedi la distruzione della Biblioteca nazionale di Sarajevo) che a scontri armati.
A turno, i due popoli che si contendevano le sorti hanno messo in campo azioni ben precise finalizzate a raccontare ed a raccontarsi di essere state costrette all’attacco, solo ed esclusivamente per difendersi. A turno, serbi e croati, strizzavano l’occhio all’Onu, facendosi autorizzare implicitamente ad attaccare senza tenere carri armati avversi alle calcagna. A turno, serbi e croati, ricevevano leaders mondiali che rifinivano loro della propria legittimità a gestire lo scontro in atto, senza sentirsi i fucili dell’opinione pubblica puntati addosso.
In ballo c’era, nello specifico, il predominio in terra jugoslava e soprattutto la necessaria legittimazione di una nuova classe politica che, all’indomani della fine dell’era titoista, scalpitava — ognuna nel suo campo, ciascuna nella propria (nuova) nazione — nel cucirsi addosso la potestà genitoriale dell’idea di ritrovata (e ridisegnata) patria.
La storia insegna che gli eventi vanno visti in larga scala; ed è così che, soprattutto alla luce della distrazione occidentale, in ottica internazionalistica, si spiega il dato battiglifero balcanico degli anni ’90. Se il dato di confine era prettamente interno, al di fuori delle pareti slave, il placet di Parigi e Londra soprattutto diretto a Milosevic, era rintracciabile in un argine alla politica economica in espansione di Berlino che, ricucita nelle sue divisioni, guardava soprattutto ad est alla ricerca di fragili economie post- sovietiche su cui potere investire. È qui che inizia e finisce il discorso e tutto il resto fa volume: da sempre lo scoordinamento, le divisioni sono terreno fertile per i propizi obiettivi degli avventori di mercato; al contrario, chi accentra è dirigibile verso una sola meta.
E allora nella ratio di una guerra mal collocata, mai compresa fino in fondo dall’Occidente, si muovevano come dei fantocci i caschi blu, esautorati completamente di ogni potere se non quello di rappresentanza. Le spinte fasciste, poi, da ambo i lati, trovavano pieno giovamento ed, ancora una volta, i civili ne facevano spese: Sarajevo, Srebrenica, Vukovar, Pristina sono stati prosceni di immagini umanamente raccapriccianti.
L’Europa che conta era da un’altra parte, effettivamente preoccupata di ricollocare tutte le risorse per creare la propria capitale de facto a Berlino ed annettersi ad ogni plateale decisione di politica economica tra ricchi (vedi Maastricht, nel 1992).
I grandi della terra giocavano a smarcarsi, ammonivano i ruoli ed i giochi delle parti; mal comprendevano, e nemmeno si sforzavano di farlo, quello che stava accadendo e prendevano le distanze quasi descrivendo, con una parvenza di sguardo severo e falsamente ammonitorio, una sorta di guerra primitiva che mischiava vittime e carnefici, attaccanti e difensori. L’ipocrisia di quel tempo è l’elemento complice di migliaia di morti.
Per spiegare l’atteggiamento con cui, per esempio, Roma guarda al mondo che sta a est dell’Adriatico, niente può essere più efficace di una foto di gruppo scattata a Villa Madama in cui si tiene la prima conferenza mondiale sulla pace jugoslava già nell’aria, in vista degli Accordi di Dayton.
A presiedere il summit c’è Susanna Agnelli, all’epoca Ministro degli Esteri italiano. Flash e giornalisti paparazzi si concentrano sui grandi capi europei ed americani, lasciando in un angolo quelli slavi, quasi come se la guerra non avesse riguardato loro e come se fossero più ospiti accettati che altro.
Lady Fiat, con una tipica ironia sabauda, non lesina gaffes premeditate giocando a perdere i riferimenti effettivi delle nuove sorte entità e confondendo leaders serbi con quelli croati e dizioni bosniache- erzegovesi con quelle slovene sotto gli sguardi sofferenti ed incazzati dei depositari degli sberleffi, considerati forse un po’ troppo naif per accedere all’aristocrazia istituzionale.
Metà Europa, per dirne una, al tempo dell’eccidio di Srebrenica — correva il Luglio del ’95 -, era al mare. L’altra metà era perennemente affacciata ad un balcone e mentre svolgeva la propria vita sicura e protetta da pareti di ceramica di lusso, ogni volta che si affacciava al di qua dell’Adriatico, non risparmiava critiche severe dirette a quella polveriera, additandola come densa di campanilismi ed impregnata di velleità territoriali pressappochiste. Ed è per questo che, ad un certo punto, allorquando la crisi balcanica esitava a cessare e, soprattutto, stava diventando uno spiacevole episodio che rovinava la borghese pax europea, ha calato, su spinta degli americani (che ne hanno dovuto, a questo punto, legittimamente rivendicare la regia), come un deus ex machina, il cessate il fuoco.
Con Daytona, però, nessun vinto e nessun vincitore: anche la Nato ha dovuto cedere il passo a più forti e concomitanti propulsioni vettoriali spinte dalla Croazia e della nuova Serbia. La neo nata (a tavolino) Bosnia è divenuta sineddoche tutta intera di una micro mappa mondo che comprende l’Erzegovina e che ridisegna tracciati, tempi e coesistenze tra bosniaci, croati, serbi, erzegovini e tra ortodossi, cattolici, ebrei e musulmani. Una sorta di Gallia est omnis divisa in partes tres del nuovo millennio per controllare e tollerare tutto, anche l’economia di mercato senza interferenze di una spenta (allora, così si riteneva) Russia che con Eltsin non vantava alcuna pretesa, se non quella di presenziare nella stanza dei bottoni.
Quel che rimane, oggi, è la genesi della memoria e della narrazione di episodi che si cerca ancora di ricostituire. Però ormai il tutto interessa a pochi. Morto Milosevic, in circostanze sospette nel carcere de l’Aja, anche l’ultimo capo scomodo è stato debellato e poco rimane delle rivendicazioni irredenti serbe. Al massimo, preoccupa relativamente lo spesso filone ortodosso che lega per forza di cose Belgrado a Mosca; ma tutti sanno che la guerra che conta, oggi come oggi, è quella della fornitura del gas. E resta un ricordo, spazzato via dagli anziani e poco coltivato dai giovani di mezza ex Jugoslavia, quel che è stato della guerra e quel che era la patria d’un tempo.
Laddove finisce lo strapotere dell’influenza occidentale che con Berlino ha fatto man bassa per “proteggere” le nuove economie, cominciano i nuovi sensi di appartenenza che indicano come “estero” la Croazia per la Serbia, il Montenegro per la Slovenia, il Kossovo per la Macedonia del Nord. Non esiste altro più, che la consegna definitiva alla storia di una pagina di racconto della umanità contemporanea che narra di stragi, violenze e brutalità inimmaginabili per ogni volta che c’è da commemorare un brutto episodio che i più vogliono dimenticare e che l’Europa che conta tende a nascondere, perché, a suo tempo, ne fu maledettamente complice!
( FRANCESCO FAIELLO) Avv.to

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