Ci si può ancora fidare di uno Stato che scende a patti con la mafia?

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Gli ultimi 100 giorni del Generale Dalla Chiesa

“La Trattativa tra Cosa Nostra e pezzi dello Stato c’è stata”. Questa, in estrema sintesi è la recente sentenza che ha assolto tutti i vertici del Ros dei Carabinieri.

Come avrebbe commentato la sentenza di questi giorni il più determinato il migliore in assoluto dei nostri generali mandato a combattere, quasi a mani nude, la mafia a Palermo?

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Il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa in una sua ultima intervista, prima di essere assassinato in via Carini a Palermo diceva di sentirsi : “assediato dalla mafia, circondato da ostilità diffuse”. Si sentiva inoltre lasciato solo ma soprattutto lo avevano lasciato senza quei poteri che aveva reclamato sin da quando aveva accettato l’incarico a prefetto di Palermo.

Lui che aveva contribuito a sconfiggere il terrorismo italiano, nonostante la sua astuzia e il grande senso di protezione verso le persone indifese, alle ore 21:15 del 3 settembre 1982 è stato ucciso a colpi di AK74 da un commando mafioso.

La carriera del generale comincia da giovane ufficiale dei Carabinieri a Corleone. Paese con una forte connotazione mafiosa, dove, seppur giovane, era riuscito ad imprimere colpi durissimi all’organizzazione criminale Cosa Nostra.

Oltre che in Sicilia, aveva passato la sua carriera da ufficiale a Firenze, Como, Roma e Milano, tra il 1966 fu mandato nuovamente in Sicilia a comandare la Legione Carabinieri di Palermo. Nel 1973. Divenuto generale di brigata, venne trasferito a Torino, dove inferse colpi altrettanto durissimi ai terroristi delle Brigate Rosse.

Nominato nel 1978 generale di divisione, gli fu affidato l’incarico di coordinare le forze di polizia per la lotta al terrorismo. Nel 1979 comandò la Divisione Pastrengo a Milano e nel 1981 divenne vicecomandante generale dell’Arma dei Carabinieri.

Una carriera brillante quella del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, coronata dal suo sogno di sempre: Sconfiggere la mafia.

Il 30 aprile 1982 quel sogno pareva avere finalmente sostanza. Sogno che venne accelerato a causa dell’uccisione a Palermo del deputato del partito comunista Pio La Torre. Con l’uccisione del deputato il Governo dell’epoca, si vide costretto ad affrettare le procedure per fare assumere al Generale l’incarico di “superprefetto”. Dalla Chiesa però, prima di accettare l’incarico fu categorico dicendo: “Vengo a Palermo per indagare anche sulla “famiglia politica più inquinata dell’isola”, facendo un chiaro ed esplicito riferimento al gruppo andreottiano siciliano. Come prefetto, chiese a più riprese poteri speciali. Poteri che non gli furono mai concessi.

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Con la nomina del Generale a prefetto di Palermo, Cosa Nostra affilava le sue armi e preparava la controffensiva.

“Quando ho sentito alla televisione che era stato promosso prefetto per distruggere la mafia ho detto: prepariamoci, mettiamo tutti i ferramenti a posto, tutte le cose pronte per dargli il benvenuto: qua gli facciamo il culo a cappello di prete”.

Questo raccontava il capo dei capi di Cosa Nostra Totò Riina al boss della Sacra Corona Unita Alberto Lorusso durante una conversazione intercettata in carcere.

A sparare quella sera al Generale e sua moglie e all’uomo della sua scorta, era stato sicuramente un gruppo di fuoco di Cosa nostra ma su incarico di chi? “C’era una “ Causale non direttamente ascrivibile alla mafia? e tutta la verità è stata accertata, tutte le responsabilità sono state scoperte?”. Questo è stato il dubbio del Procuratore antimafia Pietro Grasso.

Dopo 40 anni dalla strage, sottolineano i giudici della corte d’assise che:

“Si può, senz’altro, convenire con chi sostiene che persistano ampie zone d’ombra, concernenti sia le modalità con le quali il generale è stato mandato in Sicilia a fronteggiare il fenomeno mafioso, sia la coesistenza di specifici interessi, all’interno delle stesse istituzioni, all’eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale”. Questo si legge nella sentenza che ha condannato all’ergastolo Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo e Nino Madonia.

In quei cento giorni Dalla Chiesa ricevette segnali terrificanti.

Il primo a giugno con la strage della circonvallazione: furono uccisi il boss Alfio Ferlito, l’autista del furgone che lo stava trasferendo da un carcere all’altro e i tre carabinieri della scorta.

Un mese dopo venne compiuta tra Bagheria e Altavilla Milicia, il famigerato “triangolo della morte”, una mattanza culminata con un duplice omicidio: i cadaveri vennero caricati su un’auto lasciata senza troppi pensieri davanti a una caserma dei carabinieri. Era l’ultimo atto della sfida allo Stato. “L’operazione Dalla Chiesa è conclusa”, fu la rivendicazione mandata al giornale l’Ora di Palermo. Non sarà così.

L’operazione rivendicata al giornale si concluderà subito dopo quando toccherà proprio al generale.

La sera del delitto qualcuno andò a cercare nella residenza del prefetto alcune lenzuola per coprire i cadaveri. Ma allargò lo sguardo verso la cassaforte dove il generale teneva documenti scottanti, tra cui un voluminoso dossier sul caso Moro. Quando la cassaforte venne aperta fu trovata completamente vuota.

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